sabato 28 giugno 2008

Barack Obama, I sogni di mio padre, Nutrimenti, Roma 2007 (prima ed. 1995), pp. 460.

Barack Obama, I sogni di mio padre, Nutrimenti, Roma 2007 (prima ed. Dreams from my father, New York 1995), pp. 460.

Più che una recensione, questa scheda vuole essere un invito alla lettura. Si tratta dell’autobiografia di Barack Obama, un’autobiografia veramente bella, e soprattutto autentica: trovo importante sottolineare le coordinate cronologiche del libro, scritto molto prima dell’impegno di Obama per la casa Bianca. Il dato ci permette di non dover temere l’ombra della propagando dietro ogni parola letta, e di potercela invece gustare per quello che essa semplicemente è e dice: la storia di un uomo che cerca se stesso.
Il libro assume quasi la forma di un romanzo, e molto spesso, preso dalla lettura - veramente coinvolgente - il lettore corre il rischio di dimenticare che di autobiografia si tratta e non di romanzo, non di fizione. E questo accade sia per il carattere avventuroso di tutta la prima e la terza parte (l’infanzia di Barack in Indonesia, la prima adolescenza alle Hawaii, il college in California, i viaggi nella profonda Africa), sia per la profondità e l’analiticità con cui i vari personaggi sono introdotti e descritti. Per la profondità e l’analiticità con cui l’autore indaga e sviscera se stesso, le proprie paure, i propri timori, i propri abissi. Ma in effetti sì, si tratta anche di un romanzo, a volerla dire tutta. Un romanzo di formazione, in cui Barack percorre la lunga e dolorosa strada che conduce alla consapevolezza di sé: sentendosi estraneo sia al mondo dei neri, sia a quello dei bianchi, Barack lotta per capire chi è, per trovare la propria identità, per autodefinirsi, mentre si sente a disagio in tutti i contesti, in tutte le scelte di vita, perché si rende conto, con incredibile onestà intellettuale, che ognuna di queste vie era in realtà una fuga, una fuga da se stesso e dalle proprie radici.
Bellissimo il ritratto che emerge, pagina dopo pagina, del rapporto a distanza (un vero e proprio rapporto nella mente) con suo padre, visto solo una volta, da piccolo, eppure così presente nella sua vita. Un vero e proprio “mito”, che peserà come un macigno su tutta la vita di Obama, sia quando sarà figura di perfezione e integrità su di un alto piedistallo, sia quando si mostrerà non all’altezza di quella mitografia e di quel piedistallo, provocando in Barack delusione e rabbia.
Il libro prende le mosse proprio dal momento cruciale di questo cammino: la telefonata che dalla lontana Africa gli annuncia, a 21 anni, che suo padre è morto. A quel punto inizia il grande flashback che copre tutta la prima parte del libro, un flashback in cui Barack ripercorre la storia della sua famiglia materna, la propria infanzia con i nonni, il mito del padre, tornato in Kenya poco dopo la sua nascita, i primi anni trascorsi alle Hawaii, e poi il trasferimento in Indonesia, con la madre e il suo nuovo compagno, per poi tornare alle Hawaii dai nonni, e poi al college di Los Angeles. Il processo di formazione vero e proprio inizia con la scuola, ovviamente, perché è la relazione coi coetanei a generare le domande, sono gli altri che incarnano elucubrazioni e dilemmi che altrimenti noi saremmo capaci di tacerci e di soffocare per anni, forse per sempre. Sono gli altri che tirano fuori la rabbia e il dolore e le insicurezze e le paure e soprattutto le menzogne che altrimenti manterremmo al fondo della nostra anima. Dalla bambina di colore nel cortile della scuola elementare (che Barack maltratta per non essere emarginato dai compagni bianchi), ai “fratelli” di lotta negli anni di Università, ognuno di queste comparse, con un gesto, una parola, un rimprovero, una battuta, aggiunge un tassello fondamentale nel percorso di Obama alla scoperta della propria vera identità. Questo processo di formazione continua durante l’anno di attività a Chicago come coordinatore, un anno trascorso nei quartieri poveri della città, dove le famiglie dei neri vivevano abbandonate a loro stesse, per concludersi, finalmente, con il viaggio in Africa. Dopo aver incontrato, negli Usa, la sorella Auma e il fratello Roy (stesso padre di Obama, ma madre diversa), Barack decide che è giunta l’ora di andare in Kenya, e più precisamente nel villaggio dove era nato e cresciuto suo padre, per conoscere finalmente la sua famiglia, l’altra parte di sé. Le ultime 100, 150 pagine narrano di questo viaggio, delle bellezze selvagge dei luoghi, delle tradizioni, della gente, della storia di un intero popolo che gli viene raccontata di bocca in bocca, dalle vecchie zie, dalla nonna, da parenti più o meno lontani, cui è legato tramite complicatissimi intrecci di sangue e di matrimoni. Ognuno di questi incontri, ognuno di questi colloqui costituiscono un tassello in più nel puzzle che sta mettendo insieme il giovane Barack, fino a quando egli stesso sente che il cerchio si sta finalmente chiudendo, e che finalmente riesce a riconoscere se stesso, nella propria interezza.
Un libro molto molto bello, che ha la precisione del documentario e la bellezza del romanzo. Un libro che ci fa sperare con ancora più desiderio e più audacia che un uomo come Barack Obama, con i suoi trascorsi, con la sua intelligenza, con la sua sensibilità, con la sua integrità, con la sua onestà intellettuale, possa divenire il nuovo Presidente degli Stati Uniti.
Alessandra

sabato 14 giugno 2008

"Operazione Odessa" di Uki Goñi, Milano Garzanti 2003 (rist. 2008)




Un libro istruttivo su un momento particolare della storia del '900, purtroppo sconosciuto ai più; la storia, ricostruita nei limiti del possibile, della "fuga" (si può chiamare fuga un esodo di massa?) di gerarchi nazisti, "collaborazionisti", interi governi e semplici uomini di credo ultranazionalista e generalmente antisemita (e non solo) dall'Europa del primo dopoguerra verso un Paese teoricamente neutrale (anzi, negli ultimi sviluppi del conflitto schierato con gli Alleati): l'Argentina.
L'autore del libro, figlio di un ambasciatore Argentino durante il periodo dei fatti narrati, ripercorre la realizzazione dell'"impresa" delle diverse reti di salvataggio appoggiate da Peron e dal suo entourage con la connivenza di settori della Chiesa Cattolica (sia a Roma e Genova che in Argentina che in Spagna) e per diverse ragioni, a volte, dei servizi segreti di diverse nazioni vincitrici (Inghilterra e Stati Uniti sopra tutte). Lo spaccato che ne esce (incompleto di parte delle fonti documentarie del servizio di immigrazione argentino, eliminato in diversi periodo storici, quasi fino ai giorni nostri) rende l'idea di quanto ramificati e incredibili siano stati (e siano ancora oggi) gli intrecci tra politica, idealismo religioso (e non solo), potere economico, scontro tra potenze nel dopoguerra e di quanto per motivi assolutamente futili molti criminali condannati siano stati in realtà parte integrante della vita politico-economica e culturale di uno stato per decenni.
Solo negli ultimi anni l'Argentina ha accettato di estradare alcuni criminali dichiarati colpevoli (tra cui in Italia ricordiamo il caso Priebke), forse anche per cominciare a rivedere la propria storia in modo più critico, ma ciò non toglie che per decenni un alto numero di persone ricercate hanno potuto vivere e continuare ad esporre i propri credo liberamente.

Uno dei tanti episodi poco conosciuti della nostra storia moderna, un momento per riflettere su quanto motivi di pura convenienza incidano in realtà sull'andamento della vita nel nostro paese e nel mondo intero.

Mat

lunedì 9 giugno 2008

“Come le mosche d’autunno” di Irène Némirovsky, Adelphi - Milano 2007

In questo racconto lungo la Némirovsky affronta il tema, certamente autobiografico, dello sradicamento dell’essere umano dalla sua terra d’origine e dalla sua origine, e del violento trapianto in un altro luogo. È il caso di una benestante famiglia russa, i Karin, che allo scoppio della rivoluzione bolscevica si trasferisce in Francia. Con essi è Tatjana Ivanovna, la vecchia nutrice, la vera protagonista del racconto perché custode della memoria di quella famiglia e della sua identità. È lei che da almeno tre generazioni conserva i segreti, i gesti, i sentimenti, gli eventi di quella comunità. È lei che vede uccidere uno di loro in nome del nuovo ordine rivoluzionario. È lei che custodisce la casa dopo la fuga dei Karin ad Odessa, in luoghi più sicuri. È lei a raccogliere gli ori di famiglia e consegnarli ai suoi padroni perchè tutti si trasferiscano in Francia. È lei che a Parigi, nel nuovo mondo, li vede malinconicamente senza radici e memoria, proprio Come le mosche d’autunno che sbattono contro i vetri delle case volteggiando con le ali incerte, prossime ormai alla fine.
Ma mentre i Karin, come molti altri esuli russi, si adattano a quel mondo diverso, cercando in ogni modo di ricostruirsi una vita, Tatjana Ivanovna no. Al contrario dei nobili che si improvvisano borghesi, lei, contadina, legata alla terra, avverte in questo cedimento una morte dell’anima, alla quale non sa rassegnarsi. Le mancano le cose elementari, quelle con le quali è cresciuta, si è formata la sua esistenza: la neve per esempio, il bisogno di vedere il paesaggio entro il quale è trascorsa la vita, di respirare l’aria della sua terra, di contemplarne il cielo, di sentire il calore della stufa così diverso da quello dei caloriferi che non hanno nessun rapporto diretto col fuoco. Ma Tatjana Ivanovna avverte che in quella casa è diventata un peso, senza più quel ruolo, che faceva di lei il centro vitale della famiglia, si sente persa, disorientata. La memoria che stentatamente cerca di rievocare nei Kalin, non trova corrispondenze, sembra per loro un fardello di cui liberarsi al più presto. E questa lontananza dalla terra d’origine, unitamente al distacco dal mondo affettivo dei Karin, le fanno immaginare, proprio il giorno di Natale, quando gli altri sono altrove a festeggiare, che quella nebbia che avvolge la città sia la neve tanto attesa come quella di Sucharevo e la Senna, dove incautamente s’avventura, sia una distesa ghiacciata al di là della quale c’è la sua Karinovka.
È un piccolo capolavoro per chi si lascia affascinare dalla forza vitale della memoria anche se dolorosa ed anche per chi è amante di quel nomadismo che per destino gli scrittori di origine ebrea interpretano così profondamente. È quel nomadismo che non ti fa sentire mai a casa tua, una specie di estraneità al mondo in cui si vive per riandare alle origini, in cammino verso là dove pensiamo di incontrare l’essere umano. Come le mosche d’autunno è un racconto che raccomando di leggere anche per la qualità della scrittura asciutta, essenziale, che non cede mai al superfluo, ma non per questo meno capace di riprodurre atmosfere, ambienti, riflessioni. Un ottimo avvio alla lettura di Suite francese che è il vero capolavoro della Némirovsky.