sabato 31 maggio 2008

“Firmino” di Sam Savage - Einaudi, Torino 2008

Cosa succede quando la metafora, da figura retorica, appartenente cioè al linguaggio dell’immaginazione, si trasforma improvvisamente nella realtà di cui rappresenta la figurazione? Nasce la fabula, quella narrazione tra realtà ed immaginazione, dove, come dice Sam Savage, “le vite hanno sempre un significato e un fine”, anche quelle che nella vita reale sembrano non averne alcuno. È il caso di questo romanzo di Sam Savage che invito a leggere perché suggerisce, al di là della storia che tuttavia ti prende dall’inizio alla fine, molte interessanti riflessioni su quel complesso fenomeno che è la letteratura.
Firmino è un vero e proprio topo non di biblioteca ma di libreria, che, ultimo di una nidiata di tredici topolini, deve la sua sopravvivenza allo sbriciolamento delle pagine dei libri che lo nutrono e gli forniscono i rudimenti della cultura umana. Così imparato l’alfabeto si dedica allo studio delle parole e quindi alla lettura vorace di libri di ogni genere identificandosi con i grandi eroi della letteratura di ogni tempo, e acquisendo una conoscenza enciclopedica che va dalla filosofia, alla politica, dalla storia alla geografia, alla manualistica di ogni tipo. Ma scopre anche che i libri più belli sono i più buoni, quelli che fanno crescere il corpo e arricchiscono l’anima! I libri così acquisiti, da autodidatta, senza un piano di studio, sono nutrimento del pensiero, gli offrono la possibilità di associare quanto letto alla realtà e viceversa, di conoscere se stessi e il mondo. Insomma con la lettura Firmino si costruisce come persona e come personaggio, come essere protagonista sia della propria vita che della storia che viene narrando.
Savage ci mette di fronte ad una storia singolare per il punto di osservazione, per i desideri che suscita e per gli esiti che consegue. Vedere il mondo attraverso gli occhi di un topo, che possiede, per giunta, una cultura umana ed umanistica consente all’autore un giudizio incolpevole e spietato sulla società del nostro tempo, su quegli aspetti aberranti del mondo moderno dimentico dell’umano e creatore di emarginazioni e solitudini. Ma è un mondo che solo i libri possono salvare, quasi che una nuova classe sociale, quella dei lettori, si assuma il fardello di riscattare l’umanità dalle proprie ignoranze.
Ma Firmino è anche un essere sospeso tra il rifiuto di considerarsi topo e di vivere da topo in mezzo agli altri topi, e il desiderio suo, di topo umanizzato, di comunicare con gli uomini. Impresa impossibile, anche se Firmino si illude che almeno in parte gli sia riuscita facendosi, per così dire, adottare da un solitario quanto stravagante scrittore. È in fondo, a veder bene, il destino di chi fa della scrittura il centro della propria vita. Per sapere interpretare i sogni e i bisogni degli uomini e restituirli loro nelle forme della poesia occorre avere una conoscenza dell’universo umano la più ampia possibile che è data certo dalla curiosità e dall’osservazione, ma anche e soprattutto dalla dimestichezza con quanto gli uomini prima di lui hanno scritto, che è come un prender le distanze, come un estraniarsi al tempo in cui si vive. Lo scrittore è in bilico tra l'essere nel mondo senza essere del mondo. Così la classe dei lettori si allarga agli scrittori, quasi a ricreare quella comunità di spiriti un tempo detta Repubblica delle Lettere.
Infine gli esiti straordinari di questa breve (quanto può esserlo la vita di un topo) esistenza che man mano vede allargarsi gli orizzonti delle conoscenze, ampliarsi la gamma dei sentimenti, arricchirsi il linguaggio. Ma, grazie anche alle passioni per il cinema e la musica, a svilupparsi è soprattutto la fantasia: quel pensiero che travalica il limite oggettivo, reale del suo essere topo per elevarlo nello spazio e nel tempo dell’immaginario. “(…) talvolta [dice Firmino] avevo preso a giocare con il passato, forzandolo, facendo qua e là tanti piccoli aggiustamenti per renderlo più simile a una storia vera, e avevo anche cominciato a mescolare i ricordi con i sogni”.
In questo magma indistinto di memoria ed immaginazione nasce l’urgenza della scrittura. Infatti l’approdo finale al miracolo del libro scritto, della sua autobiografia, che è poi il romanzo che stiamo leggendo, ahimè, coincide con la sua fine. La scoperta che i coriandoli di libri non solo lo hanno nutrito nel corpo e nello spirito, ma hanno prodotto e continuano a produrre, anche in questi istanti ultimi di vita, qualcosa di umano, come un libro, trasforma la sua morte in un atto epico, eroico con cui si chiude contemporaneamente il romanzo e la vita. E mentre intorno crolla l’antico quartiere di Boston dove è la libreria che lo ha nutrito ed ospitato per far posto, sul deserto della spianata, ad un’anonima piazza o centro commerciale, la morte coglie Firmino in un monologo di sapore shakespeariano che si traduce nella pagina scritta del commiato dal mondo e da noi lettori che lo interpretiamo. È una pagina di straordinaria passione per quell’umanità autentica di cui ha preso coscienza anche se raramente l’ha potuta incontrare. “«Ma detesto quelli che sono qui, e de­testo tutti. Pazzo nella mia solitudine. Per tutte le loro col­pe. Sto perdendo i sensi. Oh, amara fine! Loro non se ne accorgeranno mai. Né lo sapranno. Né sentiranno la mia mancanza. E tutto è vecchio e vecchio tutto triste e vec­chio tutto triste e stanco». Fissai le parole. Non galleggia­vano davanti ai miei occhi né si offuscavano. I ratti non hanno lacrime. Arido e freddo era il mondo, e le parole meravigliose. Le parole arrivederci e addio, addio e ci ve­diamo, pronunciate dal piccolo e dal Grande. Tornai a ri­piegare il brano e lo mangiai.”

mercoledì 28 maggio 2008

La taverna del doge Loredan

La storia parla di un editore veneziano che "casualmente" trova in cima a un armadio un libro senza titolo e autore.
Incuriosito inizia a leggerlo e scopre che, ambientato in Inghilterra in un'altra epoca, ha per protagonista un giovane libertino.
Le due storie (dell'editore e del giovane inglese) procedono inizialmente parallele poi...
Le parti di lettore, scrittore, protagonista si mischiano tra avventure, intrighi e amori piu' o meno avvincenti, e soprattutto questa misteriosa promiscuita' di ruoli rende il libro interessante e meritevole di essere letto.

martedì 20 maggio 2008

“Diario di scuola” di Daniel Pennac – Feltrinelli, Milano 2008

Quando si scrive di scuola e delle carenze vistose che contraddistinguono l’istituzione per eccellenza deputata alla formazione delle nuove generazioni si corre il rischio di due eccessi: la generalizzazione dei problemi che escludono la fattispecie in cui quell’insegnante e quegli studenti si trovano, e la singolarità delle esperienze, penso ad esempio, alla scuola di Barbiana di Don Milani, o all’esperienza di Albino Bernardini raccolta in Un anno a Pietralata, che proprio perché particolari, sono irripetibili, e difficilmente raggiungono il livello della generalità. Diario di scuola è un’opera che si muove entro questi due confini: per un verso essa è la declinazione al singolare dell’esperienza scolastica prima dello studente e poi dell’insegnante Daniel Pennac, per l’altro via via che si va verso la conclusione la singolarità si coniuga con la riflessione più generale, e coinvolge le macrostrutture sociali, culturali (molto efficace ad esempio è l’analisi dello studente cliente) entro le quali la scuola (insegnanti, studenti e famiglie) viene ad operare.
Pennac ripercorre in questo diario il proprio itinerario scolastico secondo la duplice prospettiva dello studente prima somaro e poi recuperato, e quindi di insegnante che di proposito sceglie di dedicarsi al recupero alla dignità di persone e di studenti dei tanti somari, in gran parte coincidenti con i bulli, con i fascisti dell’ignoranza, che popolano le cronache scolastiche di oggi. È un percorso iniziato nell’infanzia quando lui nato da una famiglia benestante, ultimo di quattro fratelli laureati a pieni voti e figlio di professionisti, si scopre presto refrattario alla conoscenza, all’assimilazione dei concetti, alla memorizzazione. Scopre il suo senso di impotenza e inadeguatezza, al quale sopperisce con incredibili e sfacciate bugie dette alla famiglia e agli insegnanti, in una spirale da cui spesso si esce solo con l’abbandono scolastico. A meno di non incontrare un insegnante capace di salvarlo dalla condizione di ignorante impenitente. Un insegnante di francese (il nostro insegnante di Lettere) che, di fronte alla nullità del rendimento scolastico e alla sua capacità inesauribile di inventare scuse fantasiose, addotte a giustificare la propria somaraggine, lo impegna a scrivere racconti, a dare sfogo alla sua abilità ad inventare storie. E poi l’incontro con l’amore che agita l’anima e il corpo dell’adolescente. L’amore infatti implica la scoperta del valore di sé agli occhi dell’altro. Esso avvia quell’autostima senza la quale è impossibile qualsiasi riscatto. Così la metamorfosi da somaro a somaro redento è affidata alla scoperta della scrittura come vocazione, come bisogno di dare corpo al pensiero ed alla fantasia, e a quella dell’amore che ti pone di fronte all’altro, al tu che spezza definitivamente il muro entro cui è confinata la solitudine del somaro.
Esperienza drammatica quella dell’insuccesso scolastico che lascia i suoi segni, ma che fa nascere anche la consapevolezza che la somaraggine non è un destino ineludibile, essa è una condizione dalla quale è possibile uscire se solo si ha la fortuna di incontrare l’insegnante giusto. Questa idea, della possibile sconfitta della così detta somaraggine, diviene lo scopo di una missione: salvare il più possibile i ragazzi votati alla morte scolastica. Missione che finalizza la vita di Pennac ad insegnare ad imparare e, dove possibile, a far sì che chi impara possa a sua volta insegnare, diventare lui stesso maestro accogliendo il testimone di una corsa senza fine contro il pregiudizio scolastico.
Tutte le missioni sono fondate sull’amore gratuito di quello che si fa. Ed è la prima cosa che gli studenti di una classe percepiscono di te insegnante. Se sei o meno innamorato del tuo lavoro. Se sei lì davanti a loro perché docente investito di un ruolo, di una funzione, di un’autorità e quindi di un potere, o se invece ti appassioni a quello che dici, se stai trasmettendo non una materia scolastica, ma una parte di te, di come tu intendi quel tuo sapere. Essi si abituano a vedere con i tuoi occhi, ad ascoltare con i tuoi orecchi, a comprendere con la tua intelligenza. Essi sono dotati di quella sensibilità coinvolgente che li impegna a restituire in proporzione di quanto è stato loro donato. È questa originaria e imprescindibile passione che fa di un professore un insegnante, di un docente un maestro. Maestro ed allievo sono i due termini più propri ad indicare il complesso fenomeno dell’educazione scolastica. Maestro, dal latino magister, ha in sé la radice magis, che significa un di più, nel senso doppio in riferimento sia alla persona, cioè a colui che è di più rispetto all’allievo, sia al suo fare, al suo far crescere, ad-levare, cioè portare in alto chi ha bisogno di essere aiutato ad essere sollevato. Maestro è assai più di insegnante, di chi cioè mette solo il segno del sapere, in-signa, in un altro. L’insegnante può anche insegnare bene, ma non è detto che il suo insegnamento costituisca sempre e comunque una crescita formativa dello studente. Maestro va sicuramente oltre la funzione, direi giuridica, istituzionale, del docente che ha dinnanzi a sé il discente, titolare dell’altra funzione, quella di imparare. Per non parlare del professore, di chi pro, apertamente, fiteor, fessus, fiteri dichiara, annuncia, di colui che davanti agli scolari, semplici frequentanti della schola, annuncia un sapere, una verità, che va depositata, conservata, riferita, mai discussa perché ex cathedra.
Concludo, anche se il libro di Pennac stimola molte altre riflessioni, con l'augurio che il ministero della pubblica istruzione abbia il coraggio di farne dono al suo quasi milione di professori affinché leggendolo possano provare a diventare anche maestri.

lunedì 12 maggio 2008


è un libro molto bello, il terzo di una fortunata trilogia fantasy: "Queste Oscure Materie". parla di due ragazzi provenienti damondi diversi, Will e Lyra, che prendono parte alla lotta instaurata dal padre di quest'ultima contro l'autorità divina, allo scopo di costituire la Repubblice dei Cieli. è molto coinvolgente e affascinante.

domenica 11 maggio 2008

“L’uomo che non credeva in Dio” di Eugenio Scalfari – Mondadori, Milano 2008

È un dono incontrare intellettuali intelligenti, di vaste letture, che hanno attraversato con te gran parte del tuo tempo accompagnandoti con le analisi, i giudizi, le considerazioni che spesso ritrovi già pensate da te, ma non ancora espresse con le parole chiare con cui le dice dalle colonne di un giornale. È il caso di Eugenio Scalfari, non solo giornalista, ora editorialista domenicale de la Repubblica, ma anche sapiente scrittore, che da tempo, anche con altre opere, va alla ricerca di una propria identità, di una sorta di definizione dell’io, del proprio io.
Quest’opera di chiarificazione del Sé appartiene alla maturità dell’uomo: i grandi hanno avvertito il bisogno intimo di affrontare il passaggio della morte affidandosi al senso della propria vita, di ricercare in esso e solo in esso il viatico per varcare la soglia del mistero. Ad accompagnarci in quest’ultimo viaggio ci sono le persone vere, quelle in carne ed ossa, con cui si è condiviso il nostro tempo. Esse, a qualunque titolo l’abbiano intersecato, intrecciando la loro esistenza con la nostra, non possono essere rimosse. Non è facile regolare i conti con esse, specie se, come è il caso di Scalfari, in qualche modo si è esercitato un potere che ha potuto disporre del destino delle vite altrui.
Per un intellettuale di vaglia ci sono poi le letture, gli incontri con quei libri che ti formano le idee, che suggeriscono riflessioni, l’amore per quelle opere artistiche, musicali, di cui conservi le forme, i colori, le note, i significati delle interpretazioni. Infine il pensiero interrogante, per questo fondamentalmente filosofico, consapevole che le domande anche quelle più ruvide vanno sempre fatte, specie nell’età dei bilanci. E qui Scalfari, laico, illuminista, sicuramente anticlericale, fa i conti con la presenza scomoda di Dio. Non è il dio cha da piccino pregava accompagnando la mamma alle funzioni religiose, non è il dio di cui si sono appropriati gli apparati ecclesiastici, al contrario è una presenza assente, che egli prova a rintracciare insieme a Sant’Agostino e a Nietzsche.
Al primo è debitore di quel tormento che il credente prova di fronte al destino dell’anima: cosa (e non dove) essa sarà dopo la morte, cosa conserverà ad esempio della memoria che nel tempo l’ha formata. Davanti alla pagina che Scalfari riporta delle Confessioni lo spirito del laico resta in silenzio, come anche ammutolisce il credente pensando se stesso dinnanzi a Dio senza più la memoria di sé, senza più quel pensiero che da vivo glieLo ha fatto cercare. È un mistero sapere come si sarà davanti a Dio, cosa di quel che siamo sarà mantenuto, e più ancora se conserveremo quella parte migliore di noi che non si è arrestata di fronte alle evidenze, alle così dette verità rivelate, ma che ha cercato di capire anche ammettendo l’insufficienza del proprio pensiero.
Di Nietzsche rielabora in una chiave tutta personale, ma non per questo filosoficamente meno interessante, il celebre annuncio della “morte di Dio” riportato in Così parlò Zarathustra. L’evento di per sè è tragico, perché gli uomini uccidendo Dio, hanno rinnegato ogni valore assoluto, senza sostituire al Dio morto qualcos’altro che riempisse quel vuoto, perché la liberazione dalla verità precostituita ci ha consegnato la responsabilità di navigare in mare aperto senza più riferimenti. Insomma la morte di Dio mantiene tutto intero il problema di Dio. Si sposta l’ottica dal cielo alla terra; è qui nella natura, nel suo costituirsi come tale, come generatrice di se stessa che occorre scoprire ciò che si è perduto. Ecco perché non si può credere in Dio, tanto meno nel Dio della metafisica, della religione, di un Dio estraneo ed esterno all’essere del mondo nell’atto di crearlo. Forse nel riportarci al destino originario di dare senso al nostro essere e all’essere in generale, come dirà poi Heidegger, è possibile quella sconfitta della morte, dalla paura della quale principia ogni fede religiosa.
A più di ottant’anni Scalfari ci accompagna in questa ricostruzione di sé per farci partecipi del destino dell’essere di ciascuno, e lo fa con una scrittura che attinge a registri diversi che vanno dal linguaggio diaristico (quante memorie in questo libro!), alla riflessione filosofica, alla parola poetica, quasi a dire che in ciò di cui si conserva viva la memoria, nel pensiero dell’essere e nella parola sottratta all’usura della quotidianità e restituita al significato originario, pieno, come sa fare la poesia, è la possibile identificazione di sè. Ne voglio fornire un esempio in questo passo di pag.7
“Il tempo per noi passava in un lampo perché era gre­mito di fatti, anzi di eventi, memorabili soprattutto per me che ero il solo figlio unico di tutta quella vasta com­pagnia.
Quando è ricco di presenze e di avventure il tempo ti fugge dalle dita, un attimo incalza l'altro e lo spinge indietro nel passato mentre l'attimo futuro ti piomba addosso con la velocità della luce. Ma quando lo rivisi­ti nel ricordo quel periodo della tua vita ti sembrerà in­finitamente lungo, a misura dei fatti e degli incontri che l'hanno costellato.
Incessante romba il tempo e incanutiscono i covoni della tua vita e non sai se sia lui a trasportarti o tu a condurlo verso la foce.”
Mi permetto un arbitrio, quello di trasformare l’ultimo paragrafo in questi versi:
Incessante romba il tempo e
incanutiscono i covoni
della tua vita e
non sai
se sia lui a trasportarti
o tu a condurlo
verso la foce
” .

P.S. Se qualcuno della tribù avesse voglia di leggere questo libro sarei felicissimo di prestarglielo.

giovedì 8 maggio 2008

“La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano – Mondadori, Milano 2008

I numeri primi in matematica sono quei numeri naturali positivi, divisibili per se stessi e per l’unità. Ci sono poi coppie di numeri primi, vicini tra loro, separati solo da un numero pari, per esempio l’11 e il 13, il 17 e il 19, che i matematici chiamano primi gemelli. In questo primo romanzo di Paolo Giordano, i numeri primi sono due ragazzi straordinari, veramente fuori dell’ordinario, così diversi dal mondo dei loro coetanei da esserne respinti o tenuti a distanza, o per loro scelta viverne ai margini.
Lei, Alice, a sette anni, ha un incidente alla scuola di sci, che frequenta solo per obbedire al padre. Il corpo conserverà per sempre la cicatrice di quella gamba spezzata, e l’anima, a stento e a caro prezzo, riuscirà a liberarsi e a riscattarsi dall’obbedienza sottomessa, priva di un qualsiasi slancio di ribellione, che accompagnerà la sua adolescenza.
Lui, Matteo, è gemello di una sorellina con un marcato handicap mentale, della quale involontariamente, provocherà la morte. La sua intelligenza concentrata solo sul calcolo matematico e la sua sensibilità troppo distratta per concedersi agli affetti ne fanno un numero primo (si avvia ad una brillante carriera di matematico in un’università nordeuropea) che cercherà di spezzare il muro della solitudine che è venuta erigendosi attorno alla sua vita.
Le loro vite si sfiorano senza mai intrecciarsi; si sostengono reciprocamente, sanno di poter contare l’uno sull’altra senza che questa fiducia diventi un legame di affetti. E nella pagina finale del romanzo Alice, la più fragile, la più esposta alle delusioni della vita, sorride verso il cielo terso. Con un po’ di fatica anche lei sa alzarsi da sola.
La solitudine dei numeri primi è l’opera prima di un giovane laureato in fisica teorica e che lavora presso l’università di Torino con una borsa di dottorato, dotato di una scrittura efficace che ti prende e coinvolge. È sicuramente uno dei romanzi più interessanti che ho letto di giovani scrittori italiani.

giovedì 1 maggio 2008

“Il campo del vasaio” di Andrea Camilleri – Sellerio, Palermo 2008

Il campo del vasaio è quel terreno che gli uomini del Sinedrio acquistarono con i denari di Giuda, pentito del suo tradimento di Cristo. E’ un luogo di sangue (lì fu sepolto l’apostolo traditore dopo essersi impiccato) e di tradimento, e sangue e tradimento sono i perni attorno ai quali ruota l’indagine del commissario Montalbano in questo nuovo romanzo di Camilleri. L’omicidio che fa da filo conduttore alla storia è apparentemente un delitto di mafia; chi lo ha commesso ha seguito un rituale nelle apparenze riconducibile alla cultura degli uomini d’onore. Ma le cose non stanno così. C’è meno onore e più disonore, c’è meno fedeltà e più tradimento in questo delitto. Ed è ragionando sulle apparenze, sulla loro intenzionalità reale, che Montalbano svolge la paziente opera dell’inquirente che demistifica prima di consegnare al lettore la verità.
Mai però Camilleri confina Montalbano esclusivamente nel ruolo dell’investigatore. Gli assegna anche il compito di giudice, certo non del giudice delle aule giudiziarie, quanto di chi ha il forte desiderio di capire le trame della vita, che va oltre l’accertamento della verità poliziesca. Non c’è solo l’urgenza dell’uomo di legge di assicurare alla giustizia il colpevole, ma in lui opera una filosofia di vita che gli consente di attraversare le miserie, le passioni, gli intrighi dell’universo umano, e portarle alla luce perché siano da lui, insieme al lettore, giudicate.
E questo spiega perché la Vigata di Camilleri non è mai una società ripetitiva, ordinata e strutturata come un universo immobile. Al contrario è un variegato mondo in cui si rispecchiano pezzi notevoli dell’Italia di oggi della politica, dell’economia, del costume, della illegalità diffusa e di quella organizzata, della cultura, delle istituzioni, della Chiesa. Ogni romanzo è una finestra che si apre sull’Italia contemporanea, vista dalla Sicilia, come se questa costituisca una sorta di punto di osservazione privilegiato per capire quanto accade nel resto del paese. E’ il debito che Camilleri sente di dover pagare alla sua terra. La sua sicilianità non è solo una tecnica narrativa, il modus vivendi dell’ambiente e della storia narrati, una sorta di adesione alla lingua d’origine, ma è anche un modus osservandi, un modo di vedere le cose, per darci un’immagine vera, attendibile del nostro paese e della Sicilia. In questo modo Camilleri contribuisce al riscatto della Sicilia che avverte come compito assegnato a se stesso: presentare l’altro volto di questa terra, sottratto alla mafiosità, e costituito di gente pulita, onesta, che crede nella giustizia.
Nell’incubo notturno, con cui si apre il romanzo, è Catarella, l’agente semplice, quasi imbranato del Commissariato di Vigata, a minacciare di morte Montalbano, qualora egli accetti l’invito di Totò Rijna, divenuto nuovo capo del governo del paese, a fare il ministro dell’interno. Catarella che minaccia il suo commissario è la voce di quella coscienza onesta che salva Montalbano da un possibile tradimento. E’ la stessa voce che prende forma di dialogo interiore quando un Montalbano uno, più logico, razionale, freddo, calcolatore discute animatamente con il Montalbano due, sentimentale, accomodante, buonista.
Concludo questo breve assaggio sulla mia predilezione per Camilleri, che non esclude anche valutazioni di segno diverso, nella speranza che altri lettori, ai quali raccomando vivamente questo romanzo possano avviare un interessante dibattito sull’autore e la sua opera.