giovedì 1 maggio 2008

“Il campo del vasaio” di Andrea Camilleri – Sellerio, Palermo 2008

Il campo del vasaio è quel terreno che gli uomini del Sinedrio acquistarono con i denari di Giuda, pentito del suo tradimento di Cristo. E’ un luogo di sangue (lì fu sepolto l’apostolo traditore dopo essersi impiccato) e di tradimento, e sangue e tradimento sono i perni attorno ai quali ruota l’indagine del commissario Montalbano in questo nuovo romanzo di Camilleri. L’omicidio che fa da filo conduttore alla storia è apparentemente un delitto di mafia; chi lo ha commesso ha seguito un rituale nelle apparenze riconducibile alla cultura degli uomini d’onore. Ma le cose non stanno così. C’è meno onore e più disonore, c’è meno fedeltà e più tradimento in questo delitto. Ed è ragionando sulle apparenze, sulla loro intenzionalità reale, che Montalbano svolge la paziente opera dell’inquirente che demistifica prima di consegnare al lettore la verità.
Mai però Camilleri confina Montalbano esclusivamente nel ruolo dell’investigatore. Gli assegna anche il compito di giudice, certo non del giudice delle aule giudiziarie, quanto di chi ha il forte desiderio di capire le trame della vita, che va oltre l’accertamento della verità poliziesca. Non c’è solo l’urgenza dell’uomo di legge di assicurare alla giustizia il colpevole, ma in lui opera una filosofia di vita che gli consente di attraversare le miserie, le passioni, gli intrighi dell’universo umano, e portarle alla luce perché siano da lui, insieme al lettore, giudicate.
E questo spiega perché la Vigata di Camilleri non è mai una società ripetitiva, ordinata e strutturata come un universo immobile. Al contrario è un variegato mondo in cui si rispecchiano pezzi notevoli dell’Italia di oggi della politica, dell’economia, del costume, della illegalità diffusa e di quella organizzata, della cultura, delle istituzioni, della Chiesa. Ogni romanzo è una finestra che si apre sull’Italia contemporanea, vista dalla Sicilia, come se questa costituisca una sorta di punto di osservazione privilegiato per capire quanto accade nel resto del paese. E’ il debito che Camilleri sente di dover pagare alla sua terra. La sua sicilianità non è solo una tecnica narrativa, il modus vivendi dell’ambiente e della storia narrati, una sorta di adesione alla lingua d’origine, ma è anche un modus osservandi, un modo di vedere le cose, per darci un’immagine vera, attendibile del nostro paese e della Sicilia. In questo modo Camilleri contribuisce al riscatto della Sicilia che avverte come compito assegnato a se stesso: presentare l’altro volto di questa terra, sottratto alla mafiosità, e costituito di gente pulita, onesta, che crede nella giustizia.
Nell’incubo notturno, con cui si apre il romanzo, è Catarella, l’agente semplice, quasi imbranato del Commissariato di Vigata, a minacciare di morte Montalbano, qualora egli accetti l’invito di Totò Rijna, divenuto nuovo capo del governo del paese, a fare il ministro dell’interno. Catarella che minaccia il suo commissario è la voce di quella coscienza onesta che salva Montalbano da un possibile tradimento. E’ la stessa voce che prende forma di dialogo interiore quando un Montalbano uno, più logico, razionale, freddo, calcolatore discute animatamente con il Montalbano due, sentimentale, accomodante, buonista.
Concludo questo breve assaggio sulla mia predilezione per Camilleri, che non esclude anche valutazioni di segno diverso, nella speranza che altri lettori, ai quali raccomando vivamente questo romanzo possano avviare un interessante dibattito sull’autore e la sua opera.

1 commento:

marghe ha detto...

Grazie zio!
leggerò di sicuro il libro e ti farò sapere, anche io amo molto Montalbano.