È un dono incontrare intellettuali intelligenti, di vaste letture, che hanno attraversato con te gran parte del tuo tempo accompagnandoti con le analisi, i giudizi, le considerazioni che spesso ritrovi già pensate da te, ma non ancora espresse con le parole chiare con cui le dice dalle colonne di un giornale. È il caso di Eugenio Scalfari, non solo giornalista, ora editorialista domenicale de la Repubblica, ma anche sapiente scrittore, che da tempo, anche con altre opere, va alla ricerca di una propria identità, di una sorta di definizione dell’io, del proprio io.
Quest’opera di chiarificazione del Sé appartiene alla maturità dell’uomo: i grandi hanno avvertito il bisogno intimo di affrontare il passaggio della morte affidandosi al senso della propria vita, di ricercare in esso e solo in esso il viatico per varcare la soglia del mistero. Ad accompagnarci in quest’ultimo viaggio ci sono le persone vere, quelle in carne ed ossa, con cui si è condiviso il nostro tempo. Esse, a qualunque titolo l’abbiano intersecato, intrecciando la loro esistenza con la nostra, non possono essere rimosse. Non è facile regolare i conti con esse, specie se, come è il caso di Scalfari, in qualche modo si è esercitato un potere che ha potuto disporre del destino delle vite altrui.
Per un intellettuale di vaglia ci sono poi le letture, gli incontri con quei libri che ti formano le idee, che suggeriscono riflessioni, l’amore per quelle opere artistiche, musicali, di cui conservi le forme, i colori, le note, i significati delle interpretazioni. Infine il pensiero interrogante, per questo fondamentalmente filosofico, consapevole che le domande anche quelle più ruvide vanno sempre fatte, specie nell’età dei bilanci. E qui Scalfari, laico, illuminista, sicuramente anticlericale, fa i conti con la presenza scomoda di Dio. Non è il dio cha da piccino pregava accompagnando la mamma alle funzioni religiose, non è il dio di cui si sono appropriati gli apparati ecclesiastici, al contrario è una presenza assente, che egli prova a rintracciare insieme a Sant’Agostino e a Nietzsche.
Al primo è debitore di quel tormento che il credente prova di fronte al destino dell’anima: cosa (e non dove) essa sarà dopo la morte, cosa conserverà ad esempio della memoria che nel tempo l’ha formata. Davanti alla pagina che Scalfari riporta delle Confessioni lo spirito del laico resta in silenzio, come anche ammutolisce il credente pensando se stesso dinnanzi a Dio senza più la memoria di sé, senza più quel pensiero che da vivo glieLo ha fatto cercare. È un mistero sapere come si sarà davanti a Dio, cosa di quel che siamo sarà mantenuto, e più ancora se conserveremo quella parte migliore di noi che non si è arrestata di fronte alle evidenze, alle così dette verità rivelate, ma che ha cercato di capire anche ammettendo l’insufficienza del proprio pensiero.
Di Nietzsche rielabora in una chiave tutta personale, ma non per questo filosoficamente meno interessante, il celebre annuncio della “morte di Dio” riportato in Così parlò Zarathustra. L’evento di per sè è tragico, perché gli uomini uccidendo Dio, hanno rinnegato ogni valore assoluto, senza sostituire al Dio morto qualcos’altro che riempisse quel vuoto, perché la liberazione dalla verità precostituita ci ha consegnato la responsabilità di navigare in mare aperto senza più riferimenti. Insomma la morte di Dio mantiene tutto intero il problema di Dio. Si sposta l’ottica dal cielo alla terra; è qui nella natura, nel suo costituirsi come tale, come generatrice di se stessa che occorre scoprire ciò che si è perduto. Ecco perché non si può credere in Dio, tanto meno nel Dio della metafisica, della religione, di un Dio estraneo ed esterno all’essere del mondo nell’atto di crearlo. Forse nel riportarci al destino originario di dare senso al nostro essere e all’essere in generale, come dirà poi Heidegger, è possibile quella sconfitta della morte, dalla paura della quale principia ogni fede religiosa.
A più di ottant’anni Scalfari ci accompagna in questa ricostruzione di sé per farci partecipi del destino dell’essere di ciascuno, e lo fa con una scrittura che attinge a registri diversi che vanno dal linguaggio diaristico (quante memorie in questo libro!), alla riflessione filosofica, alla parola poetica, quasi a dire che in ciò di cui si conserva viva la memoria, nel pensiero dell’essere e nella parola sottratta all’usura della quotidianità e restituita al significato originario, pieno, come sa fare la poesia, è la possibile identificazione di sè. Ne voglio fornire un esempio in questo passo di pag.7
“Il tempo per noi passava in un lampo perché era gremito di fatti, anzi di eventi, memorabili soprattutto per me che ero il solo figlio unico di tutta quella vasta compagnia.
Quando è ricco di presenze e di avventure il tempo ti fugge dalle dita, un attimo incalza l'altro e lo spinge indietro nel passato mentre l'attimo futuro ti piomba addosso con la velocità della luce. Ma quando lo rivisiti nel ricordo quel periodo della tua vita ti sembrerà infinitamente lungo, a misura dei fatti e degli incontri che l'hanno costellato.
Incessante romba il tempo e incanutiscono i covoni della tua vita e non sai se sia lui a trasportarti o tu a condurlo verso la foce.”
Mi permetto un arbitrio, quello di trasformare l’ultimo paragrafo in questi versi:
“Incessante romba il tempo e
Quest’opera di chiarificazione del Sé appartiene alla maturità dell’uomo: i grandi hanno avvertito il bisogno intimo di affrontare il passaggio della morte affidandosi al senso della propria vita, di ricercare in esso e solo in esso il viatico per varcare la soglia del mistero. Ad accompagnarci in quest’ultimo viaggio ci sono le persone vere, quelle in carne ed ossa, con cui si è condiviso il nostro tempo. Esse, a qualunque titolo l’abbiano intersecato, intrecciando la loro esistenza con la nostra, non possono essere rimosse. Non è facile regolare i conti con esse, specie se, come è il caso di Scalfari, in qualche modo si è esercitato un potere che ha potuto disporre del destino delle vite altrui.
Per un intellettuale di vaglia ci sono poi le letture, gli incontri con quei libri che ti formano le idee, che suggeriscono riflessioni, l’amore per quelle opere artistiche, musicali, di cui conservi le forme, i colori, le note, i significati delle interpretazioni. Infine il pensiero interrogante, per questo fondamentalmente filosofico, consapevole che le domande anche quelle più ruvide vanno sempre fatte, specie nell’età dei bilanci. E qui Scalfari, laico, illuminista, sicuramente anticlericale, fa i conti con la presenza scomoda di Dio. Non è il dio cha da piccino pregava accompagnando la mamma alle funzioni religiose, non è il dio di cui si sono appropriati gli apparati ecclesiastici, al contrario è una presenza assente, che egli prova a rintracciare insieme a Sant’Agostino e a Nietzsche.
Al primo è debitore di quel tormento che il credente prova di fronte al destino dell’anima: cosa (e non dove) essa sarà dopo la morte, cosa conserverà ad esempio della memoria che nel tempo l’ha formata. Davanti alla pagina che Scalfari riporta delle Confessioni lo spirito del laico resta in silenzio, come anche ammutolisce il credente pensando se stesso dinnanzi a Dio senza più la memoria di sé, senza più quel pensiero che da vivo glieLo ha fatto cercare. È un mistero sapere come si sarà davanti a Dio, cosa di quel che siamo sarà mantenuto, e più ancora se conserveremo quella parte migliore di noi che non si è arrestata di fronte alle evidenze, alle così dette verità rivelate, ma che ha cercato di capire anche ammettendo l’insufficienza del proprio pensiero.
Di Nietzsche rielabora in una chiave tutta personale, ma non per questo filosoficamente meno interessante, il celebre annuncio della “morte di Dio” riportato in Così parlò Zarathustra. L’evento di per sè è tragico, perché gli uomini uccidendo Dio, hanno rinnegato ogni valore assoluto, senza sostituire al Dio morto qualcos’altro che riempisse quel vuoto, perché la liberazione dalla verità precostituita ci ha consegnato la responsabilità di navigare in mare aperto senza più riferimenti. Insomma la morte di Dio mantiene tutto intero il problema di Dio. Si sposta l’ottica dal cielo alla terra; è qui nella natura, nel suo costituirsi come tale, come generatrice di se stessa che occorre scoprire ciò che si è perduto. Ecco perché non si può credere in Dio, tanto meno nel Dio della metafisica, della religione, di un Dio estraneo ed esterno all’essere del mondo nell’atto di crearlo. Forse nel riportarci al destino originario di dare senso al nostro essere e all’essere in generale, come dirà poi Heidegger, è possibile quella sconfitta della morte, dalla paura della quale principia ogni fede religiosa.
A più di ottant’anni Scalfari ci accompagna in questa ricostruzione di sé per farci partecipi del destino dell’essere di ciascuno, e lo fa con una scrittura che attinge a registri diversi che vanno dal linguaggio diaristico (quante memorie in questo libro!), alla riflessione filosofica, alla parola poetica, quasi a dire che in ciò di cui si conserva viva la memoria, nel pensiero dell’essere e nella parola sottratta all’usura della quotidianità e restituita al significato originario, pieno, come sa fare la poesia, è la possibile identificazione di sè. Ne voglio fornire un esempio in questo passo di pag.7
“Il tempo per noi passava in un lampo perché era gremito di fatti, anzi di eventi, memorabili soprattutto per me che ero il solo figlio unico di tutta quella vasta compagnia.
Quando è ricco di presenze e di avventure il tempo ti fugge dalle dita, un attimo incalza l'altro e lo spinge indietro nel passato mentre l'attimo futuro ti piomba addosso con la velocità della luce. Ma quando lo rivisiti nel ricordo quel periodo della tua vita ti sembrerà infinitamente lungo, a misura dei fatti e degli incontri che l'hanno costellato.
Incessante romba il tempo e incanutiscono i covoni della tua vita e non sai se sia lui a trasportarti o tu a condurlo verso la foce.”
Mi permetto un arbitrio, quello di trasformare l’ultimo paragrafo in questi versi:
“Incessante romba il tempo e
incanutiscono i covoni
della tua vita e
non sai
se sia lui a trasportarti
o tu a condurlo
verso la foce” .
P.S. Se qualcuno della tribù avesse voglia di leggere questo libro sarei felicissimo di prestarglielo.
della tua vita e
non sai
se sia lui a trasportarti
o tu a condurlo
verso la foce” .
P.S. Se qualcuno della tribù avesse voglia di leggere questo libro sarei felicissimo di prestarglielo.
3 commenti:
posso prenotarmi?
Senz'altro. Io sono però geloso dei libri letti che presto, per due ragioni: la prima è che vi sono le mie sottolineature, appunti, chiose ecc. la seconda è che mi piace tornarci successivamente per apprezzare ciò che ad una prima lettura mi è sfuggito. Però per un periodo breve ne posso fare a meno soprattutto se il prestitto dovesse fornire l'occasione per uno scambio di valutazioni. Quando vieni a Roma, ricordami di prestartelo.
Fantastico libro! :)
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