Cosa succede quando la metafora, da figura retorica, appartenente cioè al linguaggio dell’immaginazione, si trasforma improvvisamente nella realtà di cui rappresenta la figurazione? Nasce la fabula, quella narrazione tra realtà ed immaginazione, dove, come dice Sam Savage, “le vite hanno sempre un significato e un fine”, anche quelle che nella vita reale sembrano non averne alcuno. È il caso di questo romanzo di Sam Savage che invito a leggere perché suggerisce, al di là della storia che tuttavia ti prende dall’inizio alla fine, molte interessanti riflessioni su quel complesso fenomeno che è la letteratura.
Firmino è un vero e proprio topo non di biblioteca ma di libreria, che, ultimo di una nidiata di tredici topolini, deve la sua sopravvivenza allo sbriciolamento delle pagine dei libri che lo nutrono e gli forniscono i rudimenti della cultura umana. Così imparato l’alfabeto si dedica allo studio delle parole e quindi alla lettura vorace di libri di ogni genere identificandosi con i grandi eroi della letteratura di ogni tempo, e acquisendo una conoscenza enciclopedica che va dalla filosofia, alla politica, dalla storia alla geografia, alla manualistica di ogni tipo. Ma scopre anche che i libri più belli sono i più buoni, quelli che fanno crescere il corpo e arricchiscono l’anima! I libri così acquisiti, da autodidatta, senza un piano di studio, sono nutrimento del pensiero, gli offrono la possibilità di associare quanto letto alla realtà e viceversa, di conoscere se stessi e il mondo. Insomma con la lettura Firmino si costruisce come persona e come personaggio, come essere protagonista sia della propria vita che della storia che viene narrando.
Savage ci mette di fronte ad una storia singolare per il punto di osservazione, per i desideri che suscita e per gli esiti che consegue. Vedere il mondo attraverso gli occhi di un topo, che possiede, per giunta, una cultura umana ed umanistica consente all’autore un giudizio incolpevole e spietato sulla società del nostro tempo, su quegli aspetti aberranti del mondo moderno dimentico dell’umano e creatore di emarginazioni e solitudini. Ma è un mondo che solo i libri possono salvare, quasi che una nuova classe sociale, quella dei lettori, si assuma il fardello di riscattare l’umanità dalle proprie ignoranze.
Ma Firmino è anche un essere sospeso tra il rifiuto di considerarsi topo e di vivere da topo in mezzo agli altri topi, e il desiderio suo, di topo umanizzato, di comunicare con gli uomini. Impresa impossibile, anche se Firmino si illude che almeno in parte gli sia riuscita facendosi, per così dire, adottare da un solitario quanto stravagante scrittore. È in fondo, a veder bene, il destino di chi fa della scrittura il centro della propria vita. Per sapere interpretare i sogni e i bisogni degli uomini e restituirli loro nelle forme della poesia occorre avere una conoscenza dell’universo umano la più ampia possibile che è data certo dalla curiosità e dall’osservazione, ma anche e soprattutto dalla dimestichezza con quanto gli uomini prima di lui hanno scritto, che è come un prender le distanze, come un estraniarsi al tempo in cui si vive. Lo scrittore è in bilico tra l'essere nel mondo senza essere del mondo. Così la classe dei lettori si allarga agli scrittori, quasi a ricreare quella comunità di spiriti un tempo detta Repubblica delle Lettere.
Infine gli esiti straordinari di questa breve (quanto può esserlo la vita di un topo) esistenza che man mano vede allargarsi gli orizzonti delle conoscenze, ampliarsi la gamma dei sentimenti, arricchirsi il linguaggio. Ma, grazie anche alle passioni per il cinema e la musica, a svilupparsi è soprattutto la fantasia: quel pensiero che travalica il limite oggettivo, reale del suo essere topo per elevarlo nello spazio e nel tempo dell’immaginario. “(…) talvolta [dice Firmino] avevo preso a giocare con il passato, forzandolo, facendo qua e là tanti piccoli aggiustamenti per renderlo più simile a una storia vera, e avevo anche cominciato a mescolare i ricordi con i sogni”.
In questo magma indistinto di memoria ed immaginazione nasce l’urgenza della scrittura. Infatti l’approdo finale al miracolo del libro scritto, della sua autobiografia, che è poi il romanzo che stiamo leggendo, ahimè, coincide con la sua fine. La scoperta che i coriandoli di libri non solo lo hanno nutrito nel corpo e nello spirito, ma hanno prodotto e continuano a produrre, anche in questi istanti ultimi di vita, qualcosa di umano, come un libro, trasforma la sua morte in un atto epico, eroico con cui si chiude contemporaneamente il romanzo e la vita. E mentre intorno crolla l’antico quartiere di Boston dove è la libreria che lo ha nutrito ed ospitato per far posto, sul deserto della spianata, ad un’anonima piazza o centro commerciale, la morte coglie Firmino in un monologo di sapore shakespeariano che si traduce nella pagina scritta del commiato dal mondo e da noi lettori che lo interpretiamo. È una pagina di straordinaria passione per quell’umanità autentica di cui ha preso coscienza anche se raramente l’ha potuta incontrare. “«Ma detesto quelli che sono qui, e detesto tutti. Pazzo nella mia solitudine. Per tutte le loro colpe. Sto perdendo i sensi. Oh, amara fine! Loro non se ne accorgeranno mai. Né lo sapranno. Né sentiranno la mia mancanza. E tutto è vecchio e vecchio tutto triste e vecchio tutto triste e stanco». Fissai le parole. Non galleggiavano davanti ai miei occhi né si offuscavano. I ratti non hanno lacrime. Arido e freddo era il mondo, e le parole meravigliose. Le parole arrivederci e addio, addio e ci vediamo, pronunciate dal piccolo e dal Grande. Tornai a ripiegare il brano e lo mangiai.”
Firmino è un vero e proprio topo non di biblioteca ma di libreria, che, ultimo di una nidiata di tredici topolini, deve la sua sopravvivenza allo sbriciolamento delle pagine dei libri che lo nutrono e gli forniscono i rudimenti della cultura umana. Così imparato l’alfabeto si dedica allo studio delle parole e quindi alla lettura vorace di libri di ogni genere identificandosi con i grandi eroi della letteratura di ogni tempo, e acquisendo una conoscenza enciclopedica che va dalla filosofia, alla politica, dalla storia alla geografia, alla manualistica di ogni tipo. Ma scopre anche che i libri più belli sono i più buoni, quelli che fanno crescere il corpo e arricchiscono l’anima! I libri così acquisiti, da autodidatta, senza un piano di studio, sono nutrimento del pensiero, gli offrono la possibilità di associare quanto letto alla realtà e viceversa, di conoscere se stessi e il mondo. Insomma con la lettura Firmino si costruisce come persona e come personaggio, come essere protagonista sia della propria vita che della storia che viene narrando.
Savage ci mette di fronte ad una storia singolare per il punto di osservazione, per i desideri che suscita e per gli esiti che consegue. Vedere il mondo attraverso gli occhi di un topo, che possiede, per giunta, una cultura umana ed umanistica consente all’autore un giudizio incolpevole e spietato sulla società del nostro tempo, su quegli aspetti aberranti del mondo moderno dimentico dell’umano e creatore di emarginazioni e solitudini. Ma è un mondo che solo i libri possono salvare, quasi che una nuova classe sociale, quella dei lettori, si assuma il fardello di riscattare l’umanità dalle proprie ignoranze.
Ma Firmino è anche un essere sospeso tra il rifiuto di considerarsi topo e di vivere da topo in mezzo agli altri topi, e il desiderio suo, di topo umanizzato, di comunicare con gli uomini. Impresa impossibile, anche se Firmino si illude che almeno in parte gli sia riuscita facendosi, per così dire, adottare da un solitario quanto stravagante scrittore. È in fondo, a veder bene, il destino di chi fa della scrittura il centro della propria vita. Per sapere interpretare i sogni e i bisogni degli uomini e restituirli loro nelle forme della poesia occorre avere una conoscenza dell’universo umano la più ampia possibile che è data certo dalla curiosità e dall’osservazione, ma anche e soprattutto dalla dimestichezza con quanto gli uomini prima di lui hanno scritto, che è come un prender le distanze, come un estraniarsi al tempo in cui si vive. Lo scrittore è in bilico tra l'essere nel mondo senza essere del mondo. Così la classe dei lettori si allarga agli scrittori, quasi a ricreare quella comunità di spiriti un tempo detta Repubblica delle Lettere.
Infine gli esiti straordinari di questa breve (quanto può esserlo la vita di un topo) esistenza che man mano vede allargarsi gli orizzonti delle conoscenze, ampliarsi la gamma dei sentimenti, arricchirsi il linguaggio. Ma, grazie anche alle passioni per il cinema e la musica, a svilupparsi è soprattutto la fantasia: quel pensiero che travalica il limite oggettivo, reale del suo essere topo per elevarlo nello spazio e nel tempo dell’immaginario. “(…) talvolta [dice Firmino] avevo preso a giocare con il passato, forzandolo, facendo qua e là tanti piccoli aggiustamenti per renderlo più simile a una storia vera, e avevo anche cominciato a mescolare i ricordi con i sogni”.
In questo magma indistinto di memoria ed immaginazione nasce l’urgenza della scrittura. Infatti l’approdo finale al miracolo del libro scritto, della sua autobiografia, che è poi il romanzo che stiamo leggendo, ahimè, coincide con la sua fine. La scoperta che i coriandoli di libri non solo lo hanno nutrito nel corpo e nello spirito, ma hanno prodotto e continuano a produrre, anche in questi istanti ultimi di vita, qualcosa di umano, come un libro, trasforma la sua morte in un atto epico, eroico con cui si chiude contemporaneamente il romanzo e la vita. E mentre intorno crolla l’antico quartiere di Boston dove è la libreria che lo ha nutrito ed ospitato per far posto, sul deserto della spianata, ad un’anonima piazza o centro commerciale, la morte coglie Firmino in un monologo di sapore shakespeariano che si traduce nella pagina scritta del commiato dal mondo e da noi lettori che lo interpretiamo. È una pagina di straordinaria passione per quell’umanità autentica di cui ha preso coscienza anche se raramente l’ha potuta incontrare. “«Ma detesto quelli che sono qui, e detesto tutti. Pazzo nella mia solitudine. Per tutte le loro colpe. Sto perdendo i sensi. Oh, amara fine! Loro non se ne accorgeranno mai. Né lo sapranno. Né sentiranno la mia mancanza. E tutto è vecchio e vecchio tutto triste e vecchio tutto triste e stanco». Fissai le parole. Non galleggiavano davanti ai miei occhi né si offuscavano. I ratti non hanno lacrime. Arido e freddo era il mondo, e le parole meravigliose. Le parole arrivederci e addio, addio e ci vediamo, pronunciate dal piccolo e dal Grande. Tornai a ripiegare il brano e lo mangiai.”